Le bianche braccia della signore Sorgedahl by Lars Gustafsson

Le bianche braccia della signore Sorgedahl by Lars Gustafsson

autore:Lars Gustafsson
La lingua: ita
Format: epub
pubblicato: 2013-07-28T00:00:00+00:00


16. IL LUCCIO

Quell’estate, l’estate del 1954, ero già un po’ troppo grande, un po’ troppo liceale e cittadino per frequentare i ragazzi Svärd con la libertà e la felicità della prima volta che li avevo conosciuti. Doveva essere quando avevo dodici anni.

Che li avevo scoperti. Ed era stata una scoperta meravigliosa. Stavano a dieci minuti di bicicletta in direzione sud lungo il crinale, dove le case di vacanza finivano e cominciavano quelle dei locali, ed era nella loro legnaia che ci incontravamo sempre. Non ho nessun ricordo di essere mai entrato nella casa gialla dove abitavano.

Occupavano metà di una tipica casa operaia, i cui abitanti lavoravano tutti alla segheria, un’industria che per le intere lunghe giornate estive, tranne due settimane in luglio quando chiudeva per ferie, riempiva i paraggi del suono singolarmente lamentoso di due «carri» ancora funzionanti a vapore quando attaccavano i grossi tronchi tirati fuori da un’enorme riserva cintata nel lago, dove venivano conservati perché non fossero rovinati da insetti nocivi. Solo sorvegliare quella riserva di tronchi e pescarli dall’acqua marrone chiaro è un lavoro che impegna diversi uomini. Nelle bufere può capitare che i tronchi finiscano fuori dalle barriere. Se non vengono discretamente sequestrati dai residenti e trasformati in preziosa legna da ardere, c’è il rischio che si conficchino con un’estremità in giù trasformandosi in insidiosi incagli, perfettamente capaci di bucare il fondo di una barca a motore.

Svärd, un omone gentile, lo si vedeva di rado, la mamma la ricordo come piccola e tonda. Ma i ragazzi, tre, tutti rossi di capelli, erano una compagnia davvero divertente. Erano così incredibilmente creativi. Navi spaziali – liberamente ispirate alle vivide illustrazioni dell’Äventyrmagasinet – aeroplani a elica che riuscivano a compiere brevi voli grazie a un motore di gomma fatto di camere d’aria di bicicletta, erano tutte cose che loro sapevano costruire, e a un’incredibile velocità.

Creavano senza nessuno sforzo e senza raccontare granché di quel che stavano facendo; sì, si aveva come l’impressione che tutto quel loro costruire e fabbricare e combinare là nella falegnameria fosse lo sfogo naturale di una sorta d’inquietudine che sembravano avere nelle dita.

Se fossero stati costretti a stare seduti fermi per un periodo abbastanza lungo, credo che sarebbero diventati infelicissimi.

Ma stare seduti fermi era ovviamente proprio quello che erano costretti a fare d’inverno nella loro scuola grigia e piena di spifferi giù in paese.

D’inverno non li vedevo mai. Non ho nemmeno la più pallida idea di cosa ne sia stato di questa schiera di fratelli più tardi nella vita. Magari posso anche essermi imbattuto in loro senza riconoscerli.

Una delle cose strabilianti di cui si occupavano erano i telefoni. Si procuravano bobine a induzione dove riuscivano a trovarne, in vecchie radio gettate via e in generatori per recinzioni elettrificate da tempo fuori uso.

I microfoni li ricavavano da barre di carbone di vecchie batterie da torcia, fissate in una semplice cornice di legno e inserite così abilmente una nell’altra che un colpo di tosse poteva essere catturato come vibrazioni, e tutto l’insieme era fatto funzionare da altre



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